Ecco che puntualmente il supermercato della sicurezza dovuta e pretesa ad ogni costo propina al consumatore la soluzione.
Eccellenti gingilli tecnologici di indiscutibile valore intrinseco, che potrebbero trovare qualche applicazione al termine di un lungo percorso di conoscenza, attirano le mosche sul miele, ora illuse d’esser adeguate (e uniformate) alla montagna. Mic
hai ragione che vedere un avalung e airbag vari a gente in pista fa ridere.
ma hanno anche salvato la vita a gente che conosco. chiaro che alle volte sarebbe meglio non commettere leggerezze e scendere solo dove si è sicuri. ma a chi non è mai capitato?
quindi le cinture di sicurezza, dico quelle degli aerei, che si usano per andare in vacanza sono gingilli, e gli airbag, e gli arva? chiaro che ci vuole testa, ma attaccare la tecnologia non e’ la strada giusta. Salvera’ vite, tanto basta. Tutto il resto e’ retorica!
Spesso con gli oggetti tecnologici pensiamo di essere molto sicuri e sottovalutiamo e non conosciamo quello che stiamo per fare e allora l’oggetto perde la sua utilità.
Utilità indiscutibile a patto di tentar di conoscere la montagna.
Non è un invito a rifiutare la “sicurezza”, proprio l’opposto.
Il titolo, un poco sferzante, è per evidenziare che la sovrabbondanza di dispositivi e dati, diversamente da quanto si crede, non sempre crea informazione e sapere, ma a volte luoghi comuni che allontanano dalla conoscenza, soprattutto tra i frequentatori occasionali della montagna.
E’ un invito a provare a comprendere un rischio che non si può azzerare ed è parte integrante della nostra passione.
Esser consapevoli di cosa è il “dilettevole orrore” del camminare sull’orlo dell’abisso potrebbe aiutarci a gestire il rischio residuo e valutarne l’accettabilità o meno.
Questo è un processo lungo, laborioso e difficile, lontano dall’uso di sole tecniche, manuali, materiali e tecnologie, che mal si combina con il nostro mondo che corre, desideroso di certezze e imperniato appunto sulla sicurezza pretesa in ogni nostra azione.
I commenti che circolano sui social, anche non troppo eleganti, a questa mia riflessione probabilmente sono da ricollegare alla comprensione di un sistema complesso quale è quello della sicurezza in montagna.
Tanto questa è ridotta, tanto più la si riterrà fondata in modo prevalente nella sua dimensione tecnologica (materiali).
E’ forse la sintesi dello stato di consapevolezza più diffuso, anche tra gli addetti ai lavori..
Scusa ma il post dice altro, ti riferisci ad un ipotetico fantamarketing.
E’ pacifico che in montagna si va con testa, e che ci vorrebbe piu’ cultura della montagna ma quello e’ un altro discorso,
ogni testa è diversa e ogni situazione non è valutabile al 100%.
Ecco che il gingillo ti salva la vita, puoi avere tutta la consapevolezza del mondo ma da addetto ai lavori ti dico, benvenga la tecnologia.
Per contro l’ausilio sposta inevitabilmente l’asticella verso l’alto, è il gioco a cui tutti sottostiamo.
Il tuo post invece può creare piu o meno inconsciamente un certo rifiuto all’utilizzo dell’ausilio. che appunto e’ ausilio!
Condivido il tentativo di Michele di far presente che la sicurezza non è esauribile dalla disponibilità di tecnologia (materiali), neppure farcita da quella cognitiva (saperi intellettuali) e da quella atletica (preparazione atletica). Sennò come produrrebbe sicurezza il camoscio che non ha fatto il corso di orientamento né dispone di bussola e ramponi? La produce come il Tuareg, che non ripassa il manuale di tempesta di sabbia prima di avviarsi alla traversata. Entrambi oltre alla preparazione atletica, a molte conoscenze e all’impiego (per il tuareg) di qualche accessorio, sono permanentemente in relazione con l’ambiente. Non si raccontano barzellette mentre compiono il loro percorso, non perché non ne sappiano, perché sarebbero una distrazione, perché “la notte e la tempesta li sorprenderebbero”, alzando così i rischi di inconvenienti.
Riconoscere quindi il mito della tecnologia e del sapere che la cultura propone e propina permanentemente, significa riconoscere il messaggio di Michele. Significa anche compiere il primo passo per avviarsi al recupero dell’intelligenza che il sentire permanentemente ci invia e che noi “altrettantemente” rifiutiamo o neppure percepiamo. In quel sentire c’è la dimensione che la cultura razional-intellettualistica ha occultato coprendola di slogan magnetici ma fuorvianti. Ed è quella dimensione che una volta percepita potrà essere valorizzata. Potremo allora, come dice Michele, coniugare saperi, tecnologia e capacità di cogliere ciò che né la tecnologia né i saperi potranno mai contenere. I rischi tenderanno a scendere indipendentemente dalla disponibilità di tecnologia e di sapere.
Tempo fa scrissi questo articolo dedicato a questo argomento: http://www.victoryproject.net/upload/articoli/1361043386.pdf
Grazie per l’attenzione
chi non capisce la funzione di questi “gingilli”, pur acquistandoli, è chi realmente non si intende di montagna (e allora hai ragione a chiamarli consumisti visto che andare con l’airbag in pista non serve, ma viste le condizioni in cui versa il commercio in itaGlia ben vengano anche questi, visto che non credo sia gente che muore di fame), oppure chi ha una qualche esperienza, ma pensa che la tecnologia lo possa salvare….e allora più che di mancanza di saggezza parliamo di mancanza di intelligenza e contro questa non si può far nulla.
Rispondendo a Lorenzo Merlo e di conseguenza all’articolo orginale: la concezione della montagna da voi descritta è giusta ma è quasi “obsoleta”, in senso che racconta una montagna consapevole e responabile, umana, in stretto contatto con la natura. Dove la montagna la senti e la soffri, la percepisci.
Poco basata sull’agonismo, il turismo e la superficialità, intesa come forma di divertimento generale. Due modi di vedere e di vivere la montagna agli antipodi.
Ciao Donatella, non si tratta della concezione della montagna ma dell’uomo, di quanto può raggiungere con l’edonismo e di quanto con l’idea di essere superiore e separato dalla natura.